In cammino verso Milano, in macchina, mi sono messa a ragionare sul fatto che spesso l’uomo contemporaneo incolpa la società e le abitudini di tutti i mali del mondo. Quella vecchia storia del buon selvaggio, che l’uomo nasce buono e poi è il mondo a deviarlo e bla, bla, bla. Pensavo che è sciocco non prendere nemmeno in considerazione che l’organizzazione sociale e le abitudini che l’uomo si è costruito nei millenni non siano proprio un modo per cercare di ricucire quell’abito originale perduto con il peccato. Insomma, la foglia di fico che ci ripara della nudità . E meno male che Dio poi, apprezzando il nostro sforzo, interviene donandoci delle pellicce, perché ai tropici il fico può anche fare il suo lavoro, ma da queste parti sarebbe veramente dura affrontare l’inverno riparati così.
Pensando all’origine, mi è venuto in mente che il parto è uno di quei momenti nel quale sei catapultata alla tua dimensione più primitiva, originale appunto. Sei nuda, cruda, in balia di forze naturali più grandi di te, il tuo corpo ti spinge a seguire la natura. Tutto procede per dare corso alla vita. Ma c’è un intoppo: fa male, molto male, ti strazia, ti lacera, ti sfinisce. Ma perché? Perché tanto dolore? Perché per dare la vita dobbiamo soffrire così tanto?
Mi è tornata in mente quella volta che ai bambini del catechismo ho portato uno specchio, una bomboletta di panna, scotex e vetril. Ho cominciato ricordando loro che siamo stati creati a immagini di Dio, ho preso lo specchio e ho fatto vedere a ciascuno di loro la propria immagine, facendo delle domande “Chi c’è nello specchio?”, “Tizio, caio”, “ma è proprio lui? Lo posso prendere, abbracciare, sentire l’odore, il calore?”, “No”, “Lo vedo tutto o in parte?”, “in parte”, “Allora non era Tizio, era un’immagine di Tizio, vero?”, e così via per poi riprendere il fatto che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Non siamo Dio, ma riflettiamo un poco di lui. Ognuno di noi riflette qualcosa di Dio e guardando gli uni e gli altri possiamo percepire aspetti diversi di Dio. La schiuma ed il resto servivano per riflettere su come il peccato sporchi il riflesso, nascondendo Dio, ma questo adesso non serve.
Oggi volevo fermarmi al primo aspetto: al fatto che il creato rifletta il suo Creatore. Ho pensato che subito dopo il peccato originale, Dio si rivolge per prima al serpente e, subito dopo, dice alla donna “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli”. La prima conseguenza del nostro peccato è proprio il dolore del parto. Perché? Cos’abbiamo fatto? Ok, lo so, siamo state messe al mondo per “essere d’aiuto” e abbiamo, per dirla alla Costanza, rovinato tutto con il nostro desiderio di controllo. Il ogni caso, certa che il Nostro Dio non sia un Dio vendicativo, ma un Dio che con il suo castigo ci rende nuovamente casti (e qui cito il Giovanoli, maestro di vita), cerco d’immaginare il nesso. Ecco che mi si accende una lampadina. Se il creato riflette il Creatore, immaginiamo gli specchi, il primo rifesso causato dallo stacco volontario di questi suoi figli dal proprio Genitore è il dolore, un dolore lancinante, straziante, viscerale. Il dolore del parto è il primo riflesso del dolore che abbiamo inflitto al Padre , riflesso immediato. Abbiamo creato noi il dolore al Padre e ce lo siamo beccati di ritorno, perché siamo Sua immagine. Ma lui, infinitamente buono sopra ogni cosa, non si limita a dire “moltiplicherò i tuoi dolori”, si premura a darci la possibilità di sopravvivere al dolore che noi stessi abbiamo scelto, aggiungendo “e le tue gravidanze”. Perché Lui, il Padre, sa che la vita extrauterina non sarà una passeggiata facile per noi che l’abbiamo voluta e al dolore risponde con la vita, con il dono. Esattamente come nel parto, dolore e vita diventano cosa inscindibile e Lui lo ha voluto lasciare chiaro anche in Gesù, incarnato per soffrire con noi fino in fondo, rendendoci di nuovo casti.
Fino ad oggi non avevo compreso che la genesi della sofferenza sta proprio nel vincolo viscerale che il Creatore ha con la sua creatura. E se prima di oggi pensavo sempre alla sofferenza come l’assenza di Dio (voluta da noi, intendiamoci), oggi mi sono svegliata al fatto che nella sofferenza riflettiamo Lui in un modo particolarmente chiaro.